Mio nonno Luigi agricoltore di Giais evidenziato nella foto con il cerchio rosso nel 1925 circa emigrò in Argentina lasciando la Famiglia a Giais.
L’emigrazione friulana in Argentina
L’Argentina è situata nella parte meridionale del Sud America, tra la catena delle Ande e l’Oceano Atlantico e ha una superficie grande quasi cinque volte l’Italia. La capitale federale è Buenos Aires, città che concentra un terzo della popolazione totale e che supera di poco i 40 milioni di abitanti.
Così come gli Stati Uniti, l’Australia e altre nazioni, è stata popolata grazie all’immigrazione. Contrariamente alle altri paesi latino-americani, qui i cittadini di origine europea costituiscono la maggioranza degli abitanti. Ciò è dovuto agli oltre nove milioni di immigrati che arrivarono dall’inizio degli anni settanta dell’Ottocento, fino al secondo dopoguerra, alternando ondate più o meno intense.
Fin dal 1853 la Costituzione argentina contempla la necessità di popolare il paese e di assegnare i benefici della libertà e dei diritti civili a tutti coloro che avessero voluto abitare il suolo argentino. Già nel 1878 i giornali “La Nación” e “La Prensa” descrivono gli arrivi in massa, quasi milleduecento persone al giorno! Venivano raccolte provvisoriamente nell’Hotel de Emigrantes al porto di Buenos Aires, in attesa di essere smistate verso l’interno del paese.
È in questo particolare momento storico che i territori del Friuli Venezia Giulia e dell’Argentina diventano complementari: l’uno lascia partire il suo popolo, l’altro lo accoglie, intrecciando e consolidando, in forma indelebile, i loro destini.
I friulani che emigrarono fino al 1866, avevano il passaporto austriaco e solo dal 1918 usarono quello italiano.
I giornali argentini segnalavano l’arrivo di Italiani, senza specificare la regione, quando li sentivano parlare una lingua diversa, come nel caso del friulano, li ritenevano Russi o Tedeschi, anche se citano Udine. Un quotidiano di Cordoba dopo alcuni giorni dalla pubblicazione di un articolo sull’arrivo di un contingente rettifica l’informazione: «Non sono russi, tedeschi – scrive – quelli che sono giunti giorni orsono nel nostro paese, ma italiani, italiani dell’est. Sacrifici enormi; è gente che ha fatto due mesi di viaggio e che in nave ha patito le peggiori malattie».
Sull’emigrazione nel secondo dopoguerra ci dà notizie monsignor Luigi Ridolfi nel libro Friulani d’Argentina dove sostiene che nel biennio 1877-1879 emigrarono ben seicento famiglie friulane. Inoltre una ricerca del dottor Eno Mattiussi pubblicata nel 1997 a Buenos Aires, riferisce che in Argentina, i friulani sono la terza comunità regionale dopo i siciliani e i calabresi.
I corregionali che entrarono in Argentina lo fecero in diverse condizioni. All’inizio arrivarono famiglie intere destinate alle colonie agricole statali o private. La nazione sudamericana divenne familiare nel Friuli a partire dal 1877, quando il governo argentino offriva proprietà di circa 100 ettari di terra a coloro che avessero voluto lavorarla: fu senza dubbio ciò che più attirò questi nuclei di contadini. In seguito fu il turno della grande emigrazione spontanea, durante la quale migliaia di uomini, donne e bambini entrarono nel paese, perché chiamati da qualche parente o amico.
Come accennato, il governo nazionale desiderava che gli agricoltori si stabilissero nelle zone inospitali e desertiche del paese per rafforzare le frontiere. Gli emigrati friulani, sbarcando a Buenos Aires, compresero che si sarebbero lasciati alle spalle un territorio interamente esplorato, favorevole e vantaggioso per affacciarsi su un vasto paesaggio semisconosciuto, inesplorato e faticoso.
Le difficoltà climatiche in Patagonia e la minaccia degli indios, che colpivano vaste regioni sul confine con il Paraguay, avevano impedito insediamenti duraturi e consistenti. I nuovi residenti si sentirono a disagio nel nuovo scenario, ciononostante, poco a poco, si adattarono e sorsero colonie agricole sostenute dal Governo locale, tra le quali spiccano Resistencia, Presidente Avellaneda, Reconquista, Caroya. Tutte città oggi ben sviluppate, alcune di loro capoluoghi provinciali, dove la lingua friulana è di uso comune.
Con l’arrivo del nuovo secolo i numerosissimi immigrati rimangono nelle città a svolgere diversi mestieri. La grande comunità friulana arrivata in queste terre vedeva lo spostamento di famiglie e parenti, con il conseguente svuotarsi dei paesi di origine, inoltre era comune che, chi si trovava all’estero, tendesse a cercare i propri compaesani. (Basti pensare che nell’Ospedale Italiano di Buenos Aires tra il 1920 e il 1930 lavorarono 291 friulani, di cui 154 originari di Pantianicco (UD). Oltre che in questo nosocomio i pantianicchesi erano presenti anche in altri 89 ospedali, tanto che essi ne richiamarono molti altri, ne arrivarono ben 468, lasciando il paese quasi spopolato.) Ancora oggi si ritrovano spesso tra loro e mantengono saldissimi i legami con la terra d’origine. Questo esempio dimostra come piccole comunità si siano ricostituite, anche non in ambiente agricolo, in una omogeneità di attività e di vita; inoltre si promossero incontri tanto numerosi e tanto frequenti da far sorgere la necessità di creare un posto dove trovarsi. Nacquero così la Famee furlane di Buenos Aires e altri fogolars e Segretariati dell’emigrazione che ancora oggi operano in tutta la Repubblica.
Gli emigranti lavorarono sodo e i loro figli, prima generazione di argentini con origini friulane, riuscirono a studiare anche nell’università, un sogno raggiunto! I discendenti di quella vecchia ’Merica, popolata da emigranti, sono ora sparsi in tutto il mondo.
Negli ultimi decenni i flussi migratori fra l’Argentina e la nostra Regione si sono invertiti: il Nordest ha visto arrivare i “figli di Gardel” in cerca di quello che i loro nonni ambivano tanti anni fa.
Chi oggi visita l’Argentina troverà una terra dai mille paesaggi e colori. Troverà anche tanti oriundi che ricordano le sventure e le peripezie che subirono i loro avi, durante l’epopea migratoria del secolo scorso. Chi visita l’Argentina oggi continuerà a sentire vicine le radici italiane del proprio albero cresciuto in terra americana.
Articolo di Walter Mattiussi